Su la testa!

STEFANO UNTERTHINER - Febbraio 2013

La mania degli smartphone impazza. Qualche settimana fa ero negli Stati Uniti: per le strade di Washington c'è un popolo di “zombi” che cammina con la testa rivolta verso il basso. In una mano l'amato iPhone, nell'altra l'immancabile tazza di caffè: c'è chi scrive, chi telefona, chi naviga; poi ci sono quelli che fanno jogging, naturalmente con un iPhone ben appiccicato a un braccio. Da noi, non è che le cose vadano molto diversamente. Sui treni, per strada, nelle sale di attesa: sembra che tutti abbiano l'urgenza di comunicare costantemente con qualcuno. Siamo una società follemente innamorata del nostro cellulare, tanto da non staccarcene mai.

Continuo a non voler acquistare uno smartphone, ma confesso di avere un tablet. Che differenza c'è, potrà chiedersi qualcuno? Poca, non lo nego, ma almeno un tablet non sta in una tasca e il più delle volte resta casa. L'evoluzione della fotografia digitale sta però passando anche (sopratutto, direi) attraverso questi strumenti portatili. E il tablet mi permette di capire, seguire e partecipare ai rapidi cambiamenti del mondo della fotografia. Un esempio: ho la fortuna di avere libero accesso all'account di Instagram, forse la più popolare applicazione per la condivisone delle foto, del National Geographic. Mi bastano un paio di clic e posso condividere le mie immagini con il milione di persone (una cifra in rapida e costante ascesa) che seguono la prestigiosa Society su Instagram. Una bella opportunità, impensabile anche solo pochi anni fa. Ma a quale prezzo?

Ho la sensazione che tutta questa tecnologia tascabile ci stia rubando qualche cosa. I rapporti sociali, innanzitutto. Con un cellulare tra le mani ci chiudiamo su noi stessi. Lontani e distratti, viviamo nella realtà offerta dal web e ci dimentichiamo di quello che ci sta intorno: le persone. Comunichiamo con un amico virtuale, senza accorgerci di colui che ci siede accanto. Ossessionati dallo schermo del nostro cellulare, abbiamo perso l'abitudine a osservare quello che ci circonda. Credo che questa necessità di essere sempre online ci stia in definitiva allontanando, non solo dagli altri, ma anche dalla natura. Scrive Valeria Sirabella, giovane scrittrice di Roma: “Un tempo si guardavano le stelle. Si andava a zonzo per questa vita con lo stupore nel cuore e gli occhi per aria, puntando il cielo e immaginando cosa ci fosse al di là, gli alberi, le nuvole, i tetti. Ma l'evoluzione ci ha cambiato lo sguardo. O meglio, l'ha spostato verso il basso. Il mondo intero si convoglia lì, nel minuscolo schermo del nostro smartphone. Non abbiamo bisogno di chiederci quali verità si nascondano dietro al mistero della natura perché basta chiederlo a Google, e lui ci risponderà.”

Non guardiamo più in alto. Siamo qui, ma siamo assenti. Perennemente distratti e temporaneamente concentrati su qualche cosa che sta accadendo altrove, gli occhi persi nell'abisso del nostro cellulare. È proprio da questa constatazione che è nato il progetto fotografico di un designer finlandese, We never look up (http://weneverlookup.tumblr.com/), che documenta visivamente una società con lo sguardo verso basso. Un popolo muto che non sa più guardare in alto.

Questo vivere virtuale sembra essere il nostro futuro, e ancor più quello delle generazioni a venire. A questo punto non posso che interrogarmi sulla percezione che i giovani hanno, e avranno, della realtà, di tutto quello che li circonda quotidianamente. Sul rapporto che le future generazioni sapranno ancora avere con gli altri, con la natura. Non è una riflessione da poco, perché il rispetto dell'ambiente (sia sociale che naturale) non potrà dipendere da un gadget tecnologico. Ma anche dalla capacità di alzare la testa e continuare a sognare dei giovani di domani.